lunedì 20 dicembre 2010

Per una vera scuola secondaria


Luciana Bellatalla


1. Scuola secondaria e non solo


La scuola secondaria di primo e di secondo grado, come ha ormai imposto di de-finirla il ministro Gelmini con la sua riforma, o, come si diceva un tempo, la scuola media inferiore e superiore è stata ed in parte è tuttora la croce del sistema scolastico italiano, da quando questo sistema è nato, da centocinquanta anni.
La scuola media inferiore lo è stata almeno fino al 1962, quando una legge invocata ed attesa da molti decenni ha finalmente unificato i percorsi postelementari dei pre-adolescenti italiani.
La scuola media superiore è tale non solo perché, dopo Gentile, si è tentato inva-no per oltre settant’anni di modificarla nella struttura e nei contenuti, ma soprattutto perché testimonia l’incapacità della classe politica italiana di affrontare con metodo, competenza e consapevolezza pedagogiche le questioni scolastiche. Non a caso, da Berlinguer a Gelmini, tutte le riforme, che in un ventennio sono state preparate, approvate e messe in atto, si sono rivelate insufficienti, insoddisfacenti e conservatrici, se non addirittura restauratrici, giacché tutte, non una esclusa ed indipendentemente dall’appartenenza politica del loro promotore, sono basate su un passato a cui non si dovrebbe guardare con nostalgia né, tanto meno, con rispetto.
La questione di fondo, per cui la scuola secondaria è stata sempre la spina nel fianco del sistema scolastico nazionale, va ricercata nel fatto che nessuno dei nostri politici, in generale, e dei ministri preposti alla Minerva, in particolare, si è mai in-terrogato sul ruolo e sulla funzione della scuola secondaria all’interno di un percorso ordinato e graduale di istruzione e di educazione. E non solo non lo hanno fatto per-ché hanno sempre pensato alle questioni scolastiche da una prospettiva viziata dall’ideologia in cui si riconoscevano o dalle parole d’ordine (economiche, religiose, civili, a seconda delle contingenze) del loro tempo e della società di riferimento; non lo hanno fatto perché hanno sempre e comunque guardato alla scuola come ad un servizio da rendere ai cittadini e non come ad un sistema organizzato ed aperto per la costruzione della cultura, da un lato, e per la crescita continua di soggetti individuali e sociali, dall’altro.
In una parola, i politici ed i ministri – in ciò tanto più colpevoli perché hanno a-vuto in mano le sorti del futuro di uomini e donne – non hanno mai considerato la scuola come il luogo per eccellenza per costruire il futuro del Paese, benché lo af-fermassero formalmente. Non solo la scuola può essere una sorta di ascensore sociale, ma essa garantisce anche l’aggiornamento scientifico, la continua trasformazione dell’humus culturale di una comunità: trasmette per innovare e sperimenta per rendere più solidi i saperi e le competenze.
Per questo un Paese con una scuola distinta in settori culturalmente gerarchici e meramente trasmissiva, che fa dei contenuti disciplinari il suo solo scopo, non solo finisce per non avere di fatto scuola, ma si condanna al declino.
Ebbene, questo passaggio da una scuola formale alla morte culturale è ben do-cumentato dalle vicende della scuola secondaria in Italia ed appare, anche alla luce della riforma Gelmini, ormai inarrestabile. Ci vuol poco per concludere che il futuro dell’Italia, sul piano culturale ed educativo, è segnato. Irreversibilmente, se qualcuno non si deciderà a prendere in mano la situazione della nostra scuola con idee radicalmente nuove.
Tutti i politici e tutti i ministri dell’istruzione in Italia hanno considerato la scuola secondaria, soprattutto di secondo grado, in ragione della sua collocazione nella scala del sistema scolastico: essa è apparsa a tutti, perfino a Berlinguer, che pure a-veva avuto l’intuizione di articolare il sistema scolastico non più per gradi, ma per cicli, come il ponte tra l’istruzione scolastica e la formazione universitaria e/o il mondo del lavoro.
In questa prospettiva la scuola superiore è stata sempre pensata, organizzata e voluta principalmente come scuola dei saperi e/o delle competenze: da un lato, è stata scuola di cultura per chi intendeva continuare gli studi e specializzarsi in una facoltà universitaria e, dall’altro, è stata scuola di tecnica o professionale per avviare a professioni e mestieri, più o meno specializzati.
Questa biforcazione, che alla prova dei fatti, almeno fino ad anni recenti, ha finito per consolidare distinzioni sociali ed economiche preesistenti alla scuola, è apparsa al senso comune ed ai nostri politici come necessaria. E tale era perché pog-giava e continua a poggiare su una visione distorta della scuola e dei suoi compiti. Va rilevato che sul piano pratico questa concezione di scuola ha funzionato, finché si è correlata ad una forma impietosa di mortalità scolastica, sostenuta ed attuata da professori preparati ad essere più crivelli per snellire le classi e piegare le albagie di studenti non destinati alla cultura liceale che sollecitatori di interessi e promotori di i-dee e di autonomia nei loro studenti.
Quando, per motivi extrascolastici, si è incrinato il principio di autorità su cui anche la società italiana si è a lungo basata e si è fatta strada un’idea ugualitaria della diffusione della cultura e del sapere, questa scuola ha cessato di funzionare.
Il numero degli studenti è cresciuto; la normativa ministeriale, con le sue preoc-cupazioni economicistiche, ha corretto l’impianto selezionatore della scuola genti-liana, l’università è divenuta approdo per la maggioranza degli studenti delle scuole superiori.
Tutto questo pare aver portato un abbassamento della soglia della preparazione dei nostri giovani, un appiattimento dei programmi, a cui, progressivamente, hanno fatto da contrappeso istanze localistiche, la volontà debordante delle famiglie di ge-stire, organizzare e valutare i percorsi formativi dei figli, che, resi più forti dall’appog¬gio materno e paterno, hanno finito per vedere nell’insegnante e nella scuola non una imperdibile occasione per crescere, ma una controparte da mettere in discussione e da controllare.
La politica ha cavalcato i cambiamenti; si è fatta complice di istanze che avreb-bero dovuto essere tenute a freno; ha raccolto la sfida della cosiddetta società civile, che, nell’età del neoliberismo, ha perduto ormai la spinta etica di hegeliana memoria per un rampantismo economico, di fatto, pronto a tradursi in disprezzo delle regole civili e morali, da cui l’afflusso del denaro viene frenato, e nella volontà di apparire attraverso simboli e rituali.
La scuola ha fatto le spese di questi fenomeni sociali. Poiché non si è mai riusciti a superare il dato di fatto e gli aspetti macroscopici del fenomeno scolastico, opinio-ne pubblica e politici hanno scelto, come sempre, delle scorciatoie, che, di primo ac-chito, sembrano portare prima e meglio al cuore del problema, ma che si rivelano solo incapaci di vero risanamento.
La nostra scuola è descritta come una malata terminale: occorre ripristinare la disciplina, tornare a pretendere impegno da studenti e docenti, premiare, in entrambi, il merito, valutare in maniera scientifica, ricominciare a pretendere dagli alunni la certezza delle conoscenze acquisite. Chi vive nella scuola o anche soltanto chi ama tenersi informato avrà immediatamente riconosciuto temi e questioni che i recenti ministri dell’istruzione hanno agitato pubblicamente, facendosi tutti paladini del ritorno alla serietà degli studi.
Fioroni ha fatto del suo meglio contrastando il bullismo, l’uso dei cellulari in classe e rianimando l’istituto dell’antico esame di riparazione; Gelmini lo ha seguito invocando, sulla scia di disciplinaristi inveleniti contro l’incolpevole Pedagogia, il ritorno ad una scuola nozionistica, con programmi ben fissati e ridando credito al voto in condotta. Brunetta, per parte sua, ha giurato guerra ai fannulloni, ivi compresi quei professori che in classe non fanno il loro dovere.
Su tutto, come l’ombra di Banco, aleggiano i pessimi risultati dei test di OCSE-PISA e la grande illusione, nata con Berlinguer e con il passare del tempo e dei mi-nistri dell’istruzione alimentata ad arte, che tutto possa migliorare grazie allo spirito della valutazione, di cui la scuola italiana ha grande bisogno.
Si noti che valutandi, attraverso la performance dei loro studenti, sono soprattut-to i maestri e i professori, i dipendenti pubblici peggio pagati nel nostro Paese e nell’ in¬tera UE, che per portare a casa qualche briciola in più – forse neppure a cento euro netti pro capite – dovranno lavorare di più: così l’aumento stipendiale sarà solo un inganno a fronte di un impegno didattico raddoppiato, a dispetto della pubblica opinione, che, nonostante tutto, come emerge anche da recenti articoli su settimanali di varia umanità continua ad invidiar loro i lunghi mesi di vacanze estive e i pomeriggi privi di impegni o a rinfacciare loro un impegno lavorativo di sole quattro o cinque ore quotidiane, ignorando il lavoro casalingo e le fatiche della preparazione e della correzione di compiti e dell’auto-aggiornamento, nonché i quotidiani sforzi in classe a fronte di alunni sempre meno motivati e sempre più distratti da facili seduzioni.
Che poi i nostri ministri, tutti colpevoli di aver tagliato le risorse economiche alle scuole, di averle avviate con sempre maggiore decisione verso la privatizzazione, di pretendere di fatto promozioni in massa, di dare credito alle famiglie ed ai vari loca-lismi, abbiano predicato bene, blandendo l’opinione pubblica ed il senso comune, e razzolato male, è evidente.
Il male, infatti, è alla radice: il fatto è che in Italia manca una vera scuola e, tan-to più, manca una scuola secondaria, che dovrebbe essere non tanto l’ultimo piano del sistema dell’istruzione e della formazione, ma il perno dell’intero sistema.
Comunque si gestiscano le faccende scolastiche, la tendenza a conservare visio-ni e pregiudizi fa aggio su tutto ed impedisce un vero spirito riformatore.

2. La riforma Gelmini

Non voglio discutere nei dettagli la riforma Gelmini. Mi limito solo a qualche cenno.
Della scuola secondaria di primo grado abbiamo poche e scarne notizie. Poiché la riforma del primo ciclo dell’istruzione, stabilita con la Legge 137/2008, va in vi-gore passo per passo, il ministro non ha ancora emanato gli ordinamenti curricolari della ex scuola media, limitandosi a fornire delle linee orientative sul suo futuro e delle indicazioni molto generali circa la sua organizzazione.
Ciò che possiamo affermare in maniera certa è che per la scuola secondaria di primo grado valgono e varranno i criteri “razionalizzatori”, che animano l’operato della coppia Tremonti-Gelmini: vale a dire che, a dispetto del rigore e della sempre invocata maggiore qualità della scuola, anche in questo settore si vanno ad operare tagli, non solo nel personale, ma anche nel monte-ore e nelle discipline.
Tutte le indicazioni provengono dall’articolo 5 del Decreto del Presidente della Repubblica 20 marzo 2009, n. 89, con cui si stabiliscono l’orario e le discipline da insegnare. Non solo, si assiste, come per la scuola primaria, ad una riduzione del tempo pieno (ormai a richiesta dei genitori e nei limiti della dotazione organica, as-segnata su base provinciale), ma si assiste anche ad una riduzione dell’orario di in-segnamento, soprattutto per le materie letterarie.
Dalle 11 ore previste per Italiano, Storia e Geografia, si passa a 9 per le stesse materie, cui si dovrà aggiungere la new entry di “cittadinanza e costituzione”.
Anche se si prevede un’ora di “approfondimento settimanale in materie lettera-rie” – espressione fumosa, che non si capisce a che cosa possa corrispondere concre-tamente – non solo non si raggiungono le “antiche” 11 ore, ma non si capisce neppure come un’ora aggiuntiva possa di fatto essere sufficiente per arricchire l’offerta di base. Penalizzare l’insegnamento dell’Italiano in anni come i nostri, in cui la costitutiva dinamicità della lingua non basta a spiegare l’analfabetismo di giovani e meno giovani nell’espressione scritta e parlata, è francamente poco giustificabile e ancor meno accettabile.
Inoltre, le 6 ore un tempo attribuite a Matematica e Scienze sono rimaste inalte-rate: sorprende questa decisione a fronte non solo della lamentata povertà dei nostri studenti in questo settore del sapere, ma anche della sbandierata volontà di promo-zione delle competenze scientifiche.
La medesima osservazione si può ripetere per l’Inglese e la seconda lingua stra-niera, che restano al palo, mentre, oltretutto, nella secondaria di secondo grado l’In-glese diventa di fatto l’unica lingua straniera insegnata, rendendo del tutto inutile il secondo insegnamento linguistico del precedente percorso, con cui non si possono fornire se non certe nozioni di base.
Dunque, qui, come altrove, emerge la volontà restauratrice di Gelmini e dell’esecu¬tivo a cui appartiene. I tagli, che, sotto la pressione di Tremonti, il ministro ha operato, senza opporre neppure quella minima resistenza cui perfino Moratti di tanto in tanto ricorreva, sono la spia di una visione particolare di scuola, volta non all’istruzione ed all’educazione delle giovani generazioni, ma piuttosto al conteni-mento di qualsiasi forma di crescita e di trasformazione.
Se la scuola secondaria di primo grado rafforza questa interpretazione della re-cente politica scolastica italiana, la riforma della scuola superiore fuga ogni dubbio e rivela, ad un esame neppure troppo approfondito, il suo vero volto di un ritorno al passato, a quella scuola divisa, destinata, nei suoi aspetti migliori, a pochi fortunati, selezionatrice, eppure rimpianta in un saggio come quello di Scotto di Luzio, La scuola degli italiani del 2007.
La riforma, infatti, si basa sul mantenimento di un doppio canale formativo, per di più, dopo il ridimensionamento dell’obbligo scolastico, previsto nella legge 133/08. Accanto al sistema dei sei licei, articolati in più indirizzi, permane il sistema della formazione tecnica e professionale, anch’essa divisa in più indirizzi: si tratta, certo, di una cura dimagrante di un sistema sia liceale sia tecnico-professionale, che, con i decenni e in ragione delle varie sperimentazioni, era diventato insopportabil-mente elefantiaco.
Ciò nonostante, il doppio canale formativo è il sintomo più evidente della man-canza di vera volontà innovativa da parte della nostra classe dirigente.
La riforma ha lavorato anche su orari e contenuti, riducendoli, accorpando materie, riconsegnando al latino il ruolo di segno distintivo; non ha arricchito l’offerta formativa nel settore scientifico ed ha lasciato la storia dell’arte nella sua marginalità. Ha dato, con i licei artistico e musicale-coreutico, un’impronta professionalizzante anche al settore tradizionalmente deputato alla formazione generale ed ha impoverito ancor più le scuole tecnico-professionali.
Ma l’aspetto più preoccupante è che questa nuova scuola sarà attuata in presenza di un numero sempre minore di insegnanti e con un percorso di formazione e di reclutamento per coloro che vorranno, d’ora in avanti, dedicarsi alla professione docente, ancora assai fumoso.
La Gelmini condivide due pregiudizi molto diffusi non solo in Italia: il primo è che la palestra migliore per imparare il mestiere di docente è la scuola ; il secondo è che la buona qualità dell’insegnamento/apprendimento non si basa su un alto numero di docenti, ché, anzi, il loro numero è inessenziale alla buona riuscita del percorso scolastico. In sede europea, infatti, si definisce discutibile il presupposto che “un numero maggiore di ore di insegnamento e classi meno numerose concorrano a migliorare i risultati” così come “studi economici dimostrano… che un numero elevato di insegnamento non ha necessariamente un impatto positivo sugli esiti scolastici”.
Di fronte ad affermazioni di tal genere non si sa se ridere o disperarsi: chiunque, infatti, abbia un’esperienza, pur limitata, dell’insegnamento sa bene quanto il numero degli alunni ed il tempo a disposizione siano due variabili importanti: quanti meno sono gli alunni, tanto più il lavoro si può controllare e i percorsi di insegnamento/apprendimento possono essere individualizzati, mentre le proposte didattiche possono arricchirsi; quanto minore è il tempo a disposizione, in presenza di un programma da rispettare anche in vista di prove (falsamente) oggettive di valutazione, tanto più la scolaresca va considerata en masse e le proposte didattiche si riducono a metodi standardizzati, ritenuti validi per tutti e per tutte le stagioni. E tutto questo a fronte di un ritornello – quello della scuola di qualità – che finisce per disturbare quanto i “tormentoni” di certe pubblicità, apertamente ingannevoli.
Ma il quadro è ancora più avvilente: annunciata il 4 febbraio, la riforma deve partire con l’inizio del nuovo anno scolastico. Ma i nuovi programmi sono stati pub-blicati sul sito del MIUR solo il 26 maggio 2010 , mentre le direttive per l’istruzione tecnica e professionale sono addirittura più tarde, vale a dire rispettivamente del 15 e del 28 luglio 2010. Invano, genitori, insegnanti, studenti, associazioni di categoria hanno fatto ricorso al Tar del Lazio: il 20 luglio 2010, il Tar, infatti, ha respinto la richiesta di sospensione cautelare, benché, come si legge nel sito www.asca.it/news, “abbia definito ‘illegittime’ le tre circolari applicative dei testi normativi emanati successivamente e per questo ancora privi di efficacia e di rilievo giuridico”. A set-tembre sarà un salto nel buio.
Del resto i programmi promulgati non lasciano presagire alcuna novità e, sem-mai, come accade per le Scienze umane nel liceo omonimo, siamo dinanzi ad un ar-retramento rispetto alle indicazioni dei cosiddetti programmi Brocca. Questi pro-grammi, già ad una prima lettura, appaiono incentrati soprattutto sui contenuti, giacché sono fortemente prescrittivi e tali da lasciare poco spazio alla libertà di scelta dei docenti. Fissano obiettivi generici e poco argomentati.
Quanto poi ai contenuti sono dominati dall’ansia enciclopedica, che mal si co-niuga con orari ridotti e con personale docente in crescente riduzione. Emerge, in particolare, un’impostazione storicistica dei vari saperi umanistici, che segna un ri-torno all’impostazione gentiliana, senza, però, il suo respiro culturale e la sua giusti-ficazione filosofica.
Questo aspetto è specialmente evidente nelle indicazioni riguardanti la Pedago-gia, non più disciplina a sé stante, ma una delle Scienze umane dell’omonimo liceo. Ebbene, ci si limita ad elencare gli autori, le correnti o le istituzioni da studiare – dall’antichità ad oggi – e si lasciano i problemi generali (l’educazione degli adulti, l’educazione alla cittadinanza, i media, la disabilità) all’ultimo anno del quinquennio in una posizione marginale, nella quale non si fa menzione degli aspetti epistemologici, a prescindere dai quali studiare una disciplina è impossibile.
Anche con Gelmini, dunque, nulla è cambiato o, se è cambiato, il mutamento è stato un peggioramento lungo la strada del senso comune e delle aspettative quoti-diane, cara a tutti i nostri ministri, con rarissime eccezioni.

3. Per una vera scuola secondaria

Per innovare davvero, bisogna cambiare prospettiva in maniera radicale e partire da un assunto teorico imprescindibile: se l’educazione è un percorso aperto e senza fine, allora anche la scuola, in quanto luogo per eccellenza e primario dell’educa¬zione, non può avere altri fini se non quello di servire l’educazione come processo e percorso continuo di miglioramento e, perciò, anche quello di affinare se stessa per rispettare il suo compito.
In questo senso la scuola secondaria di primo e di secondo grado non vanno considerate come autonome l’una rispetto all’altra e semplicemente in relazione per la sequenza temporale, che le lega.
I due gradi di scuola sono in realtà due momenti di una costruzione complessa ed unitaria. Per un verso la scuola secondaria di primo grado è rivolta verso la scuola primaria; costituisce con essa un ciclo unico di formazione, destinato non solo a fornire le strumentalità necessarie per un percorso più ricco e via via più approfondito di conoscenza e di problematizzazione del sapere; per un altro, tuttavia, essa guarda alla scuola secondaria di secondo grado verso la quale dovrebbe orientare gli studenti sul piano metodologico.
Insomma, per innovare e non semplicemente per fingere mutamenti che lascino tutto immutato o, peggio, lo riportino indietro nel tempo, prima di tutto bisogna im-parare a pensare alla scuola come ad un vero e proprio sistema: non basta affermarne la sistemicità, se poi essa viene nei fatti negata, trascurata e impedita.
Da qui alcune conclusioni che sono altrettante proposte per il rinnovamento ge-nuino della scuola superiore:

1. La scuola secondaria di secondo grado non è e non deve essere semplicemente il ponte tra due momenti diversi – il ciclo precedente e l’università o il mondo del lavoro –, ma la scuola nella quale, dopo l’acquisizione ed il consolidamento degli strumenti di base della conoscenza, lo studente deve essere portato attivamente alla costruzione autonoma del suo percorso intellettuale e della sua ricchezza culturale, attraverso lo studio di discipline particolari, intese non come fini in sé, ma come occasioni significative per raggiungere la capacità critica e per esercitare intelligenza e giudizio;

2. per questo la scuola secondaria, non diversamente da quella primaria, o, meglio, del primo ciclo formativo, deve essere unitaria, perché deve consentire a tutti, non uno escluso, di mettere a frutto le proprie capacità e di approfondire i propri in-teressi;

3. quindi, non può che essere obbligatoria, giacché solo un percorso unitario e destinato a tutti i giovani potrà dotare tutti degli strumenti intellettuali per rendere l’intero corso della vita significativo e costruttivo dal punto di vista del migliora-mento e del raffinamento di sé;

4. la formazione professionale, certamente necessaria, deve avvenire dopo ed oltre la scuola, in percorsi ad hoc, che una diffusa preparazione culturale per tutti dovrebbe rendere più snella e, al tempo stesso, più flessibile di quanto avviene tramite un precoce inserimento in percorsi programmaticamente prestabiliti;

5. la scuola secondaria obbligatoria ed unitaria non deve chiudere la porta a saperi tecnici e tecnologici, ma deve saper conciliare la dimensione culturale con conoscenze pratiche e tecnologiche;

6. per consentire un’offerta così ampia e variegata, deve essere scuola a tempo pieno, con aree obbligatorie ed aree opzionali, tali da permettere agli studenti per-corsi individualizzati;

7. infine, questa scuola deve avere programmi ministeriali solo orientativi che, sebbene coniugabili con le istanze dell’autonomia scolastica, non devono avere ce-dimenti verso il localismo, giacché il suo unico vero scopo è quello di licenziare uomini, cioè soggetti eternamente adolescenti sul piano dell’educazione, ma etica-mente e civilmente adulti, cioè capaci di assumersi le responsabilità tipiche del mondo, in cui sono destinati ad operare dopo la scuola ed oltre la scuola. E, in più, sul piano contingente, alla luce degli indirizzi culturali e politici del nostro tempo, anche abituati ad essere cittadini europei, se non proprio del mondo.